Argomentazioni a discolpa

La caccia | Trasmessa il: 01/07/2007



Forse non aveva del tutto torto il quisling irakeno al-Maliki quando obiettava, a chi gli rimproverava l’uccisione di Saddam Hussein, la fucilazione di Mussolini.  E non perché i due episodi non presentassero le differenze cui molti, almeno qui in Italia, si sono affrettati a dare risalto.  È fin troppo ovvio che il contesto europeo del 1945 non ha molto a che fare con quello della Mesopotamia oggi, che l’antifascismo è una cosa diversa dalla guerra di Bush e che i titoli di legittimità dei responsabili delle due azioni sono completamente diversi.  Ma, a parte il fatto che al-Maliki avrebbe potuto, se li avesse conosciuti, addurre dei paragoni più pertinenti, come quello con l’impiccagione di Omar al-Muqtar nel 1934, sappiamo tutti che somiglianze e differenze, in fondo, dipendono più dai criteri di chi le stabilisce, dalle sue opzioni e finalità, che dalla natura dei fenomeni che vengono di volta in volta comparati e nessuna diversità di contesto potrà annullare l’analogia di fondo tra due episodi che hanno visto entrambi, alla fine di una guerra, la cattura e l’eliminazione del capo (dei capi) della parte soccombente.  Si tratta, d’altronde, di una pratica largamente radicata nella storia umana, di uno dei lasciti più caratteristici del bestione primigenio.  Non è neanche una questione, come a volte si dice, di “barbarie”: i padri romani, noti civilizzatori dell’orbe e indiscussi maestri del diritto, usavano esibire nel trionfo i re nemici sconfitti e poi li facevano strozzare nel carcere mamertino e per quanti trattati sulla clemenza pubblicassero i loro filosofi restarono affezionati alla procedura fino alla caduta dell’Impero e oltre.  E se questa vi pare roba vecchia, è altrettanto noto che nel 1945 gli Alleati hanno fatto lo stesso, pur con diverse modalità e procedure, in Germania e Giappone e nulla garantisce che Mussolini, se fosse stato consegnato loro come richiesto dalle clausole dell’armistizio di Cassabile, avrebbe fatto una fine diversa di quella dei gerarchi nazisti o dei generali giapponesi.  Si potrà discutere all’infinito sui dettagli, sulle modalità dei processi e su quelle dell’esecuzione, ma sempre di questioni di dettaglio – appunto – si tratterà.
        Eppure quel tipo di argomentazione a discolpa continua a suonare straordinariamente debole.  Quello dell’analogia non è mai stata un criterio morale cogente e il fatto che le stesse puttanate di cui siamo accusati noi siano state largamente praticate da altri non ha, a ben vedere, alcun valore di attenuante.  Quello del “lo hai fatto anche tu” può essere un argomento valido sul piano emotivo, ma farlo funzionare su quello logico è meno facile di quanto sembri.  Il povero Craxi, se ricordate, cercò di utilizzarlo nella sua estrema autodifesa in parlamento, ma il fatto che, a suo dire, tutte le forze politiche ivi rappresentate si finanziassero mediante la concussione, o comunque in disprezzo alle leggi vigenti, non valse a ribaltarne le sorti, come il fatto che in Italia esista un buon numero di vie e piazze intestati a personaggi da brivido non è un buon motivo perché ne sia dedicata una a lui.   La responsabilità morale, nonostante tutto, resta una faccenda strettamente individuale e il fatto che molti altri siano portatori di colpe paragonabili alle tue significa soltanto che non sei stato in grado di sollevarti al di sopra del livello corrente, come a dire che, almeno da questo punto di vista, ti manca la capacità di distinguerti e il prestigio che ti arroghi è immeritato.
        In realtà, per tornare a occuparci di cose serie, si potrebbe sostenere che l’uccisione del capo sconfitto con la morale non ha proprio nulla a che vedere, perché risponde a puri e semplici criteri di opportunità politica.  Si tratta, probabilmente, della motivazione decisiva, nel senso che la presenza in vita di certi personaggi, con la loro capacità di aggregare il malcontento e simboleggiare una prospettiva diversa da quella dei vincitori, potrebbe causare loro infiniti grattacapi.   L’argomento, se non mi sbaglio, fu ampiamente sviluppato da Saint Just durante il processo a Luigi XVI e venne ripreso, con qualche cautela, da Robespierre, che pure alla Costituente si era mostrato contrario alla pena di morte.  Ma la stessa sorte che entrambi subirono appena un paio di anni più tardi dimostra quanto sia pericoloso per tutti ragionare in quel modo, visto che la  mia idea di salute pubblica può essere l’opposto di quella di chi avrà il potere domani e ad applicare un criterio tanto labile e soggettivo si sa quando si comincia, ma non si può dire quando e come si finirà.
        E allora?  Be’, allora si può far finta, a scanso di complicazioni, di accettare i sofismi con cui i responsabili di questi gesti li motivano in termini di diritto, giustizia e legalità, ben sapendo che di ipocrisie e solo di ipocrisie si tratta e che chi le fa proprie si troverà, volente o nolente, allo stesso livello dell’orrido Bush.  O ci si può rammaricare, con pari ipocrisia, del ricorso alla pena di morte, fingendo di credere che, date quelle premesse, sia possibile una soluzione diversa.  Perché dalla guerra non possono comunque uscire soluzioni accettabili e una volta accettata l’ipotesi della guerra è vano sperare di sfuggire alle aporie di questo tipo.  La morale è una questione di scelte e non c’è modo di poterne applicare i dettami quando le scelte di base sono già state compiute.

07.01.’07