Forse non aveva del tutto torto il quisling
irakeno al-Maliki quando obiettava, a chi gli rimproverava l’uccisione
di Saddam Hussein, la fucilazione di Mussolini. E non perché i due
episodi non presentassero le differenze cui molti, almeno qui in Italia,
si sono affrettati a dare risalto. È fin troppo ovvio che il contesto
europeo del 1945 non ha molto a che fare con quello della Mesopotamia oggi,
che l’antifascismo è una cosa diversa dalla guerra di Bush e che i titoli
di legittimità dei responsabili delle due azioni sono completamente diversi.
Ma, a parte il fatto che al-Maliki avrebbe potuto, se li avesse conosciuti,
addurre dei paragoni più pertinenti, come quello con l’impiccagione di
Omar al-Muqtar nel 1934, sappiamo tutti che somiglianze e differenze, in
fondo, dipendono più dai criteri di chi le stabilisce, dalle sue opzioni
e finalità, che dalla natura dei fenomeni che vengono di volta in volta
comparati e nessuna diversità di contesto potrà annullare l’analogia di
fondo tra due episodi che hanno visto entrambi, alla fine di una guerra,
la cattura e l’eliminazione del capo (dei capi) della parte soccombente.
Si tratta, d’altronde, di una pratica largamente radicata nella
storia umana, di uno dei lasciti più caratteristici del bestione primigenio.
Non è neanche una questione, come a volte si dice, di “barbarie”:
i padri romani, noti civilizzatori dell’orbe e indiscussi maestri del
diritto, usavano esibire nel trionfo i re nemici sconfitti e poi li facevano
strozzare nel carcere mamertino e per quanti trattati sulla clemenza pubblicassero
i loro filosofi restarono affezionati alla procedura fino alla caduta dell’Impero
e oltre. E se questa vi pare roba vecchia, è altrettanto noto che
nel 1945 gli Alleati hanno fatto lo stesso, pur con diverse modalità e
procedure, in Germania e Giappone e nulla garantisce che Mussolini, se
fosse stato consegnato loro come richiesto dalle clausole dell’armistizio
di Cassabile, avrebbe fatto una fine diversa di quella dei gerarchi nazisti
o dei generali giapponesi. Si potrà discutere all’infinito sui dettagli,
sulle modalità dei processi e su quelle dell’esecuzione, ma sempre di
questioni di dettaglio – appunto – si tratterà.
Eppure
quel tipo di argomentazione a discolpa continua a suonare straordinariamente
debole. Quello dell’analogia non è mai stata un criterio morale
cogente e il fatto che le stesse puttanate di cui siamo accusati noi siano
state largamente praticate da altri non ha, a ben vedere, alcun valore
di attenuante. Quello del “lo hai fatto anche tu” può essere un
argomento valido sul piano emotivo, ma farlo funzionare su quello logico
è meno facile di quanto sembri. Il povero Craxi, se ricordate, cercò
di utilizzarlo nella sua estrema autodifesa in parlamento, ma il fatto
che, a suo dire, tutte le forze politiche ivi rappresentate si finanziassero
mediante la concussione, o comunque in disprezzo alle leggi vigenti, non
valse a ribaltarne le sorti, come il fatto che in Italia esista un buon
numero di vie e piazze intestati a personaggi da brivido non è un buon
motivo perché ne sia dedicata una a lui. La responsabilità morale,
nonostante tutto, resta una faccenda strettamente individuale e il fatto
che molti altri siano portatori di colpe paragonabili alle tue significa
soltanto che non sei stato in grado di sollevarti al di sopra del livello
corrente, come a dire che, almeno da questo punto di vista, ti manca la
capacità di distinguerti e il prestigio che ti arroghi è immeritato.
In
realtà, per tornare a occuparci di cose serie, si potrebbe sostenere che
l’uccisione del capo sconfitto con la morale non ha proprio nulla a che
vedere, perché risponde a puri e semplici criteri di opportunità politica.
Si tratta, probabilmente, della motivazione decisiva, nel senso che
la presenza in vita di certi personaggi, con la loro capacità di aggregare
il malcontento e simboleggiare una prospettiva diversa da quella dei vincitori,
potrebbe causare loro infiniti grattacapi. L’argomento, se non
mi sbaglio, fu ampiamente sviluppato da Saint Just durante il processo
a Luigi XVI e venne ripreso, con qualche cautela, da Robespierre, che pure
alla Costituente si era mostrato contrario alla pena di morte. Ma
la stessa sorte che entrambi subirono appena un paio di anni più tardi
dimostra quanto sia pericoloso per tutti ragionare in quel modo, visto
che la mia idea di salute pubblica può essere l’opposto di quella
di chi avrà il potere domani e ad applicare un criterio tanto labile e
soggettivo si sa quando si comincia, ma non si può dire quando e come si
finirà.
E
allora? Be’, allora si può far finta, a scanso di complicazioni,
di accettare i sofismi con cui i responsabili di questi gesti li motivano
in termini di diritto, giustizia e legalità, ben sapendo che di ipocrisie
e solo di ipocrisie si tratta e che chi le fa proprie si troverà, volente
o nolente, allo stesso livello dell’orrido Bush. O ci si può rammaricare,
con pari ipocrisia, del ricorso alla pena di morte, fingendo di credere
che, date quelle premesse, sia possibile una soluzione diversa. Perché
dalla guerra non possono comunque uscire soluzioni accettabili e una volta
accettata l’ipotesi della guerra è vano sperare di sfuggire alle aporie
di questo tipo. La morale è una questione di scelte e non c’è modo
di poterne applicare i dettami quando le scelte di base sono già state
compiute.
07.01.’07