Analogie di loghi

La caccia | Trasmessa il: 11/25/2007


    A proposito di simboli, avrete visto anche voi, sui giornali di giovedì, il nuovo logo – come modernamente si dice – del Partito Democratico. E avrete senza dubbio osservato, senza bisogno che ve lo venissi a spiegare io, che, concettualmente, quell'emblema è del tutto identico a quello di “Forza Italia”. Si tratta in entrambi i casi di un intarsio di bianco, rosso e verde, organizzato in modo di evidenziare delle lettere dell'alfabeto, e l'unica differenza, a parte l'obbligatoria presenza, sul coté veltroniano, di uno striminzito ramoscello di ulivo, sta nel fatto che il logo di “Forza Italia” è impostato in verticale, e contiene il nome intero della formazione, mentre quello del PD si sviluppa orizzontalmente e si limita a esibire la sigla. L'elemento base, in entrambi i casi, è l'esibizione della propria identità in stretta connessione con il tricolore nazionale.
    Il tricolore, indubbiamente, rappresenta il livello zero della simbologia politica nel paese. I colori che lo compongono, magari, possono ambire a una qualche maggiore incisività, viste le ben note caratterizzazioni eversive del rosso, le virtù ecologiche del verde e il lontano collegamento del bianco con le organizzazioni di massa cattoliche, ma la combinazione, dal 1797, da quando – cioè – le autorità della Repubblica Cispadana la adottarono, sul modello francese, per la propria bandiera (ma forse, come usava allora, era già diffusa in forma di coccarda) – resta strettamente legata all'idea stessa di uno stato italiano indipendente. Da allora, in effetti, passando dalla Cispadana alla Transpadana e dalla Transpadana alla Cisalpina, per approdare infine alla Repubblica Italiana di Napoleone, il Tricolore ha presieduto alle nostre sorti unitarie, perdendo per via le originali connotazioni giacobine e purgandosi delle timide connessioni rivoluzionarie stabilite nel primo '800. In effetti, come devo aver già fatto notare in qualche “Caccia” precedente, la sua contraddittorietà caratterizza abbastanza bene il caso italiano: si tratta, in fondo, di un simbolo di indipendenza creato in omaggio a una potenza occupante e di un emblema rivoluzionario entrato in uso per decreto reale (quello di Carlo Alberto, che, nel 1848, all'atto di varcare il Ticino lo fece distribuire alle proprie truppe). È questa sostanziale ambiguità di fondo che gli ha permesso, in ultima analisi, di farsi accettare da tutti.
    Il che ne fa, nel bene e nel male, un emblema unitario. Qualcosa che rappresenta comunque la nostra comunità nel suo complesso e il cui uso, di conseguenza, dovrebbe essere riservato alle istituzioni. Il fatto che non ci sia partito, tra i circa quaranta che affliggono il nostro sistema politico, che non abbia trovato modo di infilare, di riffa o di raffa, il tricolore nel proprio emblema (se ne esentano, a quanto ne so, solo le organizzazioni a base regionale e a vocazione secessionista) non è soltanto una manifestazione di italianità, che sarebbe, a pensarci, un'affermazione un po' troppo ovvia perché valga la pena di farla, ma è un vero e proprio tentativo di appropriazione. L'Italia siamo noi, vogliono comunicarci costoro: i nostri valori sono quelli di tutti e per tutti, date tra', presto o tardi dovranno valere. Che è una pretesa legittima, ma affatto generica, visto che non si cura di specificare di quali valori, in sostanza, si tratti. I tempi in cui la falce e il martello incrociati, con il loro ovvio richiamo alla solidarietà tra tutti i lavoratori manuali, si contrapponevano alla croce della Chiesa, simbolo di autorità e tradizione, sono definitivamente passati. Tutti inalberano il tricolore e anche se “Forza Italia”, a quanto sembra, è in via di liquidazione, vedrete che il nascente Partito del Popolo non si ammanterà di colori diversi.
    Insomma: anche nella prospettiva bipartitica alla quale sembra lavorino il Sindaco e il Cavaliere, del tricolore ci tocca accontentarci. Ci tocca, cioè, accontentarci della contrapposizione tra due partiti di centro, dalle caratteristiche quanto più indistinte possibile, che gestiranno le nostre faccende in via quanto più possibile riservata, modulando in forme solo apparentemente nuove quella inguaribile tendenza al compromesso, quella incapacità assoluta di schierarsi anche nei discrimini più drammatici che ha caratterizzato, dai tempi della Repubblica Cispadana, la nostra classe dirigente. Sempre che ad accontentarci – naturalmente – siamo disposti.