Non so quali considerazioni abbiano spinto il buon Prodi
e gli altri leader del centro sinistra a dichiarare che la cessione del
17% di Mediaset, che ha portato due miliardi e duecento milioni di euro
nella cassaforte di famiglia del Presidente del Consiglio, è “una pura
operazione finanziaria” e come tale va giudicata. Intendevano, immagino,
inficiare a priori qualsiasi pretesa berlusconesca di aver annullato in
tutto o in parte il conflitto di interessi. E ci mancherebbe altro,
visto che, oltre al contante, al cavaliere resta il pieno controllo
dell’impresa, per cui quel conflitto, se mai, si aggrava. Il fatto
che venga in parte monetizzato non lo rende meno significativo dal punto
di vista sostanziale e formale.
In ogni caso, un qualche significato politico, nell’operazione,
forse varrebbe la pena di cercarlo. In fondo, non è senza interesse
il fatto che un imprenditore finanziariamente alla frutta, com’era il
Berlusconi del 1994, sia riuscito, pur con il crescere dei suoi impegni
dopo la celebre “discesa in campo” di quell’anno, a mettere il
suo gruppo al sicuro, al punto di poter incassare, con la quotazione in
Borsa e un primo collocamento di titoli, 980 miliardi di lire già nel ’96
e di arrivare oggi, con un peculio di 12 miliardi di dollari, al venticinquesimo
posto nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo. Un
uomo di affari accorto, dunque, e al tempo stesso uno cui la politica non
ha fatto, evidentemente, del male.
In questo straordinario successo, s’intende, non c’è
nulla di poco chiaro. È tutto dichiarato nero su bianco. Mediaset
va benissimo, nel 2004 ha visto crescere il suo utile netto del 35,5 %,
per un totale di 500,2 milioni di euro, il gruppo ha uno share televisivo
del 42,96, una quota di mercato del 34,3 e la sua concessionaria esclusiva
ha raccolto da sola il 66,1% della pubblicità televisiva,. Persino
Bertinotti ha dichiarato che va considerato “un asset strategico del Paese”,
un “campione nazionale” da difendere da qualsiasi pericolo di acquisizione
da parte non italiana. L’ipotesi di un governo di centro sinistra,
che, in un futuro più o meno prossimo, si impegna per salvare le imprese
di Berlusconi dalla minaccia straniera, come con la Fiat, può sembrare
un po’ da fantascienza, ma in Italia sono successe cose anche più strane.
È politica, tutto questo? Be’, sì, evidentemente
è politica. Lo stesso Silvio ha messo più volte in rapporto i due
aspetti della sua attività, dichiarandosi certo che tra le componenti della
fiducia di cui gode (o, chissà, godeva) da parte dell’elettorato andasse
annoverato l’apprezzamento popolare per le sue doti di imprenditore. Non
ha mai nascosto, anzi, ha orgogliosamente ostentato, anche nelle recenti
polemiche con l’infido Follini, il fatto di non essere un politico puro.
Ora, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non
cambia e si potrebbe benissimo sostenere che questo significa che il nostro,
anche come imprenditore, purissimo proprio non è, nel senso che di qualche
ricaduta, per lo meno indiretta, dalla politica possa essersi giovato.
Non ci sarebbe, anche in questo caso, nulla di male, ma si tratta
comunque di un’ipotesi che i cittadini elettori dovrebbero valutare. Finora,
va detto, non sono sembrati annettervi grande importanza, anche se le cose,
forse, stanno cambiando. A noi, che vorremmo – ingenuamente – che
i due campi fossero comunque ben separati, non resta che sperare che il
Premier prenda ispirazione dal titolo di quel celebre film di Woody Allen
e, adesso che ha preso i soldi, si decida a togliere il disturbo.
17.04.’05