Alta finanza e bassa politica

La caccia | Trasmessa il: 04/17/2005



Non so quali considerazioni abbiano spinto il buon Prodi e gli altri leader del centro sinistra a dichiarare che la cessione del 17% di Mediaset, che ha portato due miliardi e duecento milioni di euro nella cassaforte di famiglia del Presidente del Consiglio, è “una pura operazione finanziaria” e come tale va giudicata.  Intendevano, immagino, inficiare a priori qualsiasi pretesa berlusconesca di aver annullato in tutto o in parte il conflitto di interessi.  E ci mancherebbe altro,  visto che, oltre al contante, al cavaliere resta il pieno controllo dell’impresa, per cui quel conflitto, se mai, si aggrava.  Il fatto che venga in parte monetizzato non lo rende meno significativo dal punto di vista sostanziale e formale.
In ogni caso, un qualche significato politico, nell’operazione, forse varrebbe la pena di cercarlo.  In fondo, non è senza interesse il fatto che un imprenditore finanziariamente alla frutta, com’era il Berlusconi del 1994, sia riuscito, pur con il crescere dei suoi impegni  dopo la celebre “discesa in campo” di quell’anno, a mettere il suo gruppo al sicuro, al punto di poter incassare, con la quotazione in Borsa e un primo collocamento di titoli, 980 miliardi di lire già nel ’96 e di arrivare oggi, con un peculio di 12 miliardi di dollari, al venticinquesimo posto nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo.  Un uomo di affari accorto, dunque, e al tempo stesso uno cui la politica non ha fatto, evidentemente, del male.
In questo straordinario successo, s’intende, non c’è nulla di poco chiaro.  È tutto dichiarato nero su bianco.  Mediaset va benissimo, nel 2004 ha visto crescere il suo utile netto del 35,5 %, per un totale di 500,2 milioni di euro, il gruppo ha uno share televisivo del 42,96, una quota di mercato del 34,3 e la sua concessionaria esclusiva ha raccolto da sola il 66,1% della pubblicità televisiva,.  Persino Bertinotti ha dichiarato che va considerato “un asset strategico del Paese”, un “campione nazionale” da difendere da qualsiasi pericolo di acquisizione da parte non italiana.  L’ipotesi di un governo di centro sinistra, che, in un futuro più o meno prossimo, si impegna per salvare le imprese di Berlusconi dalla minaccia straniera, come con la Fiat, può sembrare un po’ da fantascienza, ma in Italia sono successe cose anche più strane.
È politica, tutto questo?  Be’, sì, evidentemente è politica.  Lo stesso Silvio ha messo più volte in rapporto i due aspetti della sua attività, dichiarandosi certo che tra le componenti della fiducia di cui gode (o, chissà, godeva) da parte dell’elettorato andasse annoverato l’apprezzamento popolare per le sue doti di imprenditore.  Non ha mai nascosto, anzi, ha orgogliosamente ostentato, anche nelle recenti polemiche con l’infido Follini, il fatto di non essere un politico puro.
Ora, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia e si potrebbe benissimo sostenere che questo significa che il nostro, anche come imprenditore, purissimo proprio non è, nel senso che di qualche ricaduta, per lo meno indiretta, dalla politica possa essersi giovato.  Non ci sarebbe, anche in questo caso, nulla di male, ma si tratta comunque di un’ipotesi che i cittadini elettori dovrebbero valutare.  Finora, va detto, non sono sembrati annettervi grande importanza, anche se le cose, forse, stanno cambiando.  A noi, che vorremmo – ingenuamente – che i due campi fossero comunque ben separati, non resta che sperare che il Premier prenda ispirazione dal titolo di quel celebre film di Woody Allen e, adesso che ha preso i soldi, si decida a togliere il disturbo.

17.04.’05