Alcuni problemi di documentazione

La caccia | Trasmessa il: 11/05/2000



Corre voce che due settimane fa mi sia sfuggita, in questa sede, una gaffe clamorosa.  Vi ho parlato, in tono scandalizzato, dell’esistenza in Milano di un museo degli strumenti di tortura, ipotizzando che le sue fortune fossero legate a quel tanto di sadico che alligna nell’animo dei migliori di noi (per non dire dei peggiori), e non sapevo che contro quell’istituto si stavano muovendo le forze della reazione.  Mi era completamente sfuggito il fatto che il comune di Milano, nella persona del vicesindaco De Corato e dell’assessore alla cultura Carrubba, avesse (e abbia) tutte le intenzioni di sfrattarlo dai locali della Pusterla di Sant’Ambrogio in cui è alloggiato, auspicando la chiusura definitiva di una struttura considerata incompatibile con la linea culturale del comune stesso.  Ignoravo che quella raccolta fosse stata voluta, anni fa, da democratici di tutto rispetto e alto sentire, come padre Davide Turoldo, al fine di denunciare le male pratiche altrui e non sapevo che, a tutt’oggi, molti continuano a servirsene in quel senso, come fa quella mia amica insegnante dalle impeccabili credenziali ideologiche che suole condurvi in visita le scolaresche.  E anche sui particolari sono stato impreciso: ho scoperto che la riproduzione della gabbia dei condannati che fino a qualche tempo fa era esposta all’esterno della Pusterla (il che mi dava – se ricordate – qualche fastidio) adesso non c’è più.  È stata rimossa – mi ha informato un’ascoltatrice gentile con un pizzico di malizia – perché dava altrettanto fastidio all’Abate di Sant’Ambrogio, uno che, evidentemente, quando qualcosa gli dà fastidio non ha problemi a farsela togliere di torno.  Insomma, mi sono trovato, in un modo o nell’altro, dalla stessa parte di personaggi con cui, di solito, né io né gli ascoltatori amiamo fraternizzare.
        Fosse solo questa l’accusa da cui devo difendermi, me la caverei ancora con poco.  Nulla impedisce, in fondo, che il vicesindaco De Corato, l’assessore Carrubba (e, naturalmente, l’Abate di sant’Ambrogio) ne azzecchino, una volta tanto, una giusta e comunque io quel museo non avevo proposto di chiuderlo con un atto di autorità, in nome di una linea culturale che degli amministratori, quali sono, in sostanza, gli assessori e i vicesindaci, non sono qualificati a esprimere.   Io avevo semplicemente consigliato di non andarci, che mi sembra tutt’altro discorso, tanto è vero che due su tre degli ascoltatori che hanno protestato hanno cominciato la loro protesta precisando che loro di visitare quel posto non se lo sognavano neanche, ma…   Il problema nasce quando si comincia a tirare in campo, come dire, la necessità di informarsi.  La tortura è una realtà altamente spiacevole della nostra storia e del nostro mondo, è ancora in vigore – in varie modalità – in più paesi di quanti ci piaccia sapere e si può sostenere la necessità che tutti, per poterla combattere a ragion veduta, si documentino con quanto più zelo possibile sulle sue forme presenti e passate.   Magari frequentando un museo come quello che il comune di Milano vuole far chiudere.  In fondo, per capire quanto siano orribili certe pratiche non basta sentirne parlare così, in astratto.  Si fa presto a dire “tortura” o “pena di morte” (e ancora più presto a dire “terzo grado” o “condanna capitale”), ma solo di fronte a una ghigliottina in perfetto assetto o a una Vergine di Norimberga o ai tanti altri strumenti di morte e di dolore prodotti dall’ingegno umano ci si rende conto di cosa, concretamente quei termini significhino e comportino.
        È una logica suggestiva, anche se forse un poco pericolosa.  Nessuno, in fondo, afferma che per combattere la pornografia bisogna visionare quante più immagini pornografiche si riesce a mettere insieme e che le visite in rete ai siti per pedofili possano avere una funzione educativa, nel senso di suscitare la giusta esecrazione di chi le compie.  E non è necessario, naturalmente, assistere a un’esecuzione capitale (che in molte parti del mondo, compresi gli Stati Uniti, sono almeno parzialmente pubbliche) per rendersi conto di cosa quell’operazione significhi in termini morali.
        Il fatto è che anche la necessità di documentazione incontra, fatalmente, i suoi limiti. E uno di questi limiti, l’unico – forse – che non mi sembra possa essere mai superato, è quello della dignità degli individui coinvolti.  Le macchine di tortura e di morte, siano esposte o non esposte in un museo, non distruggono soltanto i corpi delle vittime.  Le privano della loro dignità di esseri umani, quelli che (se ricordate) dovrebbero essere sempre considerati come fine e mai come mezzo, ed è impossibile partecipare, sia pure in forma mediate, a un’operazione del genere senza rimetterci la propria.   Io, proprio perché mi sento civilmente impegnato contro quelle pratiche (anche se non sempre faccio tutto quel che dovrei per concretizzare l’impegno) quegli oggetti non voglio neanche vederli e sono grato all’Abate di Sant’Ambrogio, quali siano state le sue motivazioni, se il suo intervento mi ha ridato la possibilità di percorrere serenamente via Carducci.   Che De Corato e Carrubba agiscano in base a una logica illiberale e censoria mi sembra assolutamente ovvio, ma questo lo sapevamo già.  Loro hanno la loro logica e noi, per fortuna, la nostra.
        Quanto al museo degli strumenti di tortura, se volete andateci pure, ma sappiate che è a vostro rischio e pericolo.

C. Oliva, 05.11.’00