Corre voce che due settimane fa mi sia
sfuggita, in questa sede, una gaffe clamorosa. Vi ho parlato, in
tono scandalizzato, dell’esistenza in Milano di un museo degli strumenti
di tortura, ipotizzando che le sue fortune fossero legate a quel tanto
di sadico che alligna nell’animo dei migliori di noi (per non dire dei
peggiori), e non sapevo che contro quell’istituto si stavano muovendo
le forze della reazione. Mi era completamente sfuggito il fatto che
il comune di Milano, nella persona del vicesindaco De Corato e dell’assessore
alla cultura Carrubba, avesse (e abbia) tutte le intenzioni di sfrattarlo
dai locali della Pusterla di Sant’Ambrogio in cui è alloggiato, auspicando
la chiusura definitiva di una struttura considerata incompatibile con la
linea culturale del comune stesso. Ignoravo che quella raccolta fosse
stata voluta, anni fa, da democratici di tutto rispetto e alto sentire,
come padre Davide Turoldo, al fine di denunciare le male pratiche altrui
e non sapevo che, a tutt’oggi, molti continuano a servirsene in quel senso,
come fa quella mia amica insegnante dalle impeccabili credenziali ideologiche
che suole condurvi in visita le scolaresche. E anche sui particolari
sono stato impreciso: ho scoperto che la riproduzione della gabbia dei
condannati che fino a qualche tempo fa era esposta all’esterno della Pusterla
(il che mi dava – se ricordate – qualche fastidio) adesso non c’è più.
È stata rimossa – mi ha informato un’ascoltatrice gentile con un
pizzico di malizia – perché dava altrettanto fastidio all’Abate di Sant’Ambrogio,
uno che, evidentemente, quando qualcosa gli dà fastidio non ha problemi
a farsela togliere di torno. Insomma, mi sono trovato, in un modo
o nell’altro, dalla stessa parte di personaggi con cui, di solito, né
io né gli ascoltatori amiamo fraternizzare.
Fosse
solo questa l’accusa da cui devo difendermi, me la caverei ancora con
poco. Nulla impedisce, in fondo, che il vicesindaco De Corato, l’assessore
Carrubba (e, naturalmente, l’Abate di sant’Ambrogio) ne azzecchino, una
volta tanto, una giusta e comunque io quel museo non avevo proposto di
chiuderlo con un atto di autorità, in nome di una linea culturale che degli
amministratori, quali sono, in sostanza, gli assessori e i vicesindaci,
non sono qualificati a esprimere. Io avevo semplicemente consigliato
di non andarci, che mi sembra tutt’altro discorso, tanto è vero che due
su tre degli ascoltatori che hanno protestato hanno cominciato la loro
protesta precisando che loro di visitare quel posto non se lo sognavano
neanche, ma… Il problema nasce quando si comincia a tirare in campo,
come dire, la necessità di informarsi. La tortura è una realtà altamente
spiacevole della nostra storia e del nostro mondo, è ancora in vigore –
in varie modalità – in più paesi di quanti ci piaccia sapere e si può
sostenere la necessità che tutti, per poterla combattere a ragion veduta,
si documentino con quanto più zelo possibile sulle sue forme presenti e
passate. Magari frequentando un museo come quello che il comune
di Milano vuole far chiudere. In fondo, per capire quanto siano orribili
certe pratiche non basta sentirne parlare così, in astratto. Si fa
presto a dire “tortura” o “pena di morte” (e ancora più presto a dire
“terzo grado” o “condanna capitale”), ma solo di fronte a una ghigliottina
in perfetto assetto o a una Vergine di Norimberga o ai tanti altri strumenti
di morte e di dolore prodotti dall’ingegno umano ci si rende conto di
cosa, concretamente quei termini significhino e comportino.
È
una logica suggestiva, anche se forse un poco pericolosa. Nessuno,
in fondo, afferma che per combattere la pornografia bisogna visionare quante
più immagini pornografiche si riesce a mettere insieme e che le visite
in rete ai siti per pedofili possano avere una funzione educativa, nel
senso di suscitare la giusta esecrazione di chi le compie. E non
è necessario, naturalmente, assistere a un’esecuzione capitale (che in
molte parti del mondo, compresi gli Stati Uniti, sono almeno parzialmente
pubbliche) per rendersi conto di cosa quell’operazione significhi in termini
morali.
Il
fatto è che anche la necessità di documentazione incontra, fatalmente,
i suoi limiti. E uno di questi limiti, l’unico – forse – che non mi
sembra possa essere mai superato, è quello della dignità degli individui
coinvolti. Le macchine di tortura e di morte, siano esposte o non
esposte in un museo, non distruggono soltanto i corpi delle vittime. Le
privano della loro dignità di esseri umani, quelli che (se ricordate) dovrebbero
essere sempre considerati come fine e mai come mezzo, ed è impossibile
partecipare, sia pure in forma mediate, a un’operazione del genere senza
rimetterci la propria. Io, proprio perché mi sento civilmente impegnato
contro quelle pratiche (anche se non sempre faccio tutto quel che dovrei
per concretizzare l’impegno) quegli oggetti non voglio neanche vederli
e sono grato all’Abate di Sant’Ambrogio, quali siano state le sue motivazioni,
se il suo intervento mi ha ridato la possibilità di percorrere serenamente
via Carducci. Che De Corato e Carrubba agiscano in base a una logica
illiberale e censoria mi sembra assolutamente ovvio, ma questo lo sapevamo
già. Loro hanno la loro logica e noi, per fortuna, la nostra.
Quanto
al museo degli strumenti di tortura, se volete andateci pure, ma sappiate
che è a vostro rischio e pericolo.
C. Oliva, 05.11.’00