Ha l’aria soddisfatta l’architetto Botta, fotografato, con tanto di casco
di sicurezza sul capo, sulla sommità del cantiere della Scala, che corrisponde,
per ora, alla base della torre ellissoidale a tre piani che “coronerà”
l’edificio. Il suo intervento, confida al giornalista che lo sta
intervistando è uno di quelli in cui si è “tolto, ripulito, conservato
e aggiunto nuova architettura”. Per cui, guardando dall’alto Milano,
commenta tutto allegro: “Vedete? Da qui scorgiamo il tamburo di
san Fedele, la cupola tonda della Galleria e il tiburio di San Giuseppe:
queste sono adeguate conclusioni dei tetti della città. Ora, anche
la Scala avrà una simile degna copertura.”
Sono interessanti, queste dichiarazioni, riportate
nella Cronaca di Milano del “Corriere” di martedì 24, soprattutto se
sommate a quelle della sovraintendente Carla di Francesco, che dio solo
sa a che cosa sovrintenda, ma spiega che la costruzione dell’ovale è “una
scelta con la quale si testimonia che nella città storica l’architettura
contemporanea ha diritto di presenza”. Sono interessanti perché
deve essere la prima volta, se non mi sbaglio, in cui i milanesi vengono
informati del fatto che l’intervento di Botta ha, diciamo, una dimensione
creativa. Prima, come ricorderete, si parlava di restauro. Si
diceva che il problema, non che di modificare con un inserto contemporaneo
l’edificio del Piermarini, era quello di togliere di mezzo le superfetazioni
otto novecentesche che l’evoluzione del teatro lirico e della funzione
sociale della Scala avevano, con l’andar dei secoli, imposto. La
torre a ellisse, forse, non rispondeva esattamente a un progetto di rivalorizzazione
integrale dell’antico, ma tanto, a guardare il teatro un po’ da vicino,
non la si sarebbe neanche vista. Il concetto era così chiaro che,
nell’articolo si cita lo stesso sindaco, Gabriele “Mai-a-Strasburgo”
Albertini, che, in visita al cantiere, si vanta di restituire ai milanesi
“la Scala come venne realizzata” e che il titolo, pur registrando
le vanterie di Botta sul carattere innovativo del suo intervento, le fa
precedere da un perentorio (e ossimorico) “La Scala ritorna alle origini”.
Leggendo con attenzione, poi, si finisce col
capire che il ripristino dell’antico, allo stato, riguarda soprattutto
gli interni, in cui, eliminando “velluti rossi e passatoie”, si troveranno
“parquet a strati in rovere nella sala, seminato veneziano nei corridoi,
beole di granito nei corridoi delle gallerie, marmorino del Piermarini
per i muri dei primi tre livelli, intonaco per gli altri tre”. Insomma,
“una Scala di pietra”, un teatro “old fashion” come “la videro i fratelli
Verri quel 3 agosto 1788 quando Antonio Salieri l’inaugurò con ‘L’Europa
riconosciuta’”.
Ora, a parte il fatto che, nel 1788, dei fratelli
Verri Alessandro si era già trasferito a Roma da undici anni e non è detto
che Pietro, che non amava l’opera, fosse presente all’evento, anche questa
ipotesi è affatto improbabile. Gli spettatori della prima avranno
trovato, forse, il parquet, il seminato, le beole, il marmorino e l’intonaco,
ma non hanno visto certo né le poltrone in platea (allora ci si stava in
piedi: per sedersi bisognava possedere un palco), né la fossa per l’orchestra,
che sarebbe stata introdotta un secolo dopo per influenza wagneriana, né
naturalmente la luce elettrica, l’aria condizionata, i libretti elettronici
e le altre moderne diavolerie oggi in uso. È naturale: le caratteristiche
formali e le modalità di fruizione del melodramma si sono talmente modificate
dal 1788 in poi che i teatri hanno dovuto adeguarsi. L’aspetto della
sala, come la ricordiamo prima dell’avvio degli odierni “restauri”,
risaliva, più o meno, alla svolta tra il XIX e il XX secolo (gli anni che,
non per niente, corrispondono all’ultima stagione di vitalità del genere
lirico) e non era neanche “autentico”, in quanto frutto di ricostruzione
dopo i bombardamenti del ’43. Ma, nel caso di un edificio antico
ancora in uso e non completamente museizzato, è logico e ragionevole trattare
con una certa libertà gli interni, adeguandoli via via alle nuove necessità,
e cercare di conservare, se mai, i valori volumetrici e architettonici
dell’esterno, anche per rispetto dell’ambito urbano in cui è inserito.
È quanto, più o meno, si fa normalmente. Solo a Milano, che
io sappia, si è scelta la via opposta di riservare la filologia agli arredi,
ai pavimenti, alle pareti interne e simili e di lasciare piena libertà
di trasformare la struttura complessiva dell’edificio. Il risultato
è che i melomani del futuro crederanno di avere a disposizione un teatro
bifronte, metà del Botta e metà del Piermarini, ma visto che la metà più
antica sarà passata per la via crucis dell’abbattimento e della ricostruzione,
si troveranno davanti – in realtà – un autentico Botta sovrapposto a
un Piermarini falso. Perché la cupola della Galleria, il tamburo
di San Fedele e il tiburio di San Giuseppe coronano i rispettivi edifici
ab origine, fanno parte del progetto originale: l’ellissi del Botta, ahimè,
no. E a quel punto, forse, sarebbe valsa la pena di lasciar perdere
la Scala e costruire senza tanti infingimenti un teatro nuovo. Era
un’ipotesi forse un po’ audace, ma ammetterete che meritava di essere
presa in considerazione.
In realtà, all’establishment milanese di oggi,
l’idea di un teatro nuovo non diceva e non dice nulla. I suoi
esponenti amano la musica, specie se lirica, ne vanno pazzi, la adorano,
addirittura, ma solo lì, solo vicino alle loro dimore di Monte Napoleone
e via Crocifisso e ai ristoranti in cui sogliono riunirsi per il dopoteatro.
In periferia, come si è visto con il triste caso del Teatro degli
Arcimboldi, non ci vanno. La nuova Scala sarà in gran parte un falso,
tipo il Castello Sforzesco o il borgo medioevale di Motta Visconti, ma
per loro è sempre meglio un falso in centro che un’opera d’arte autentica
in periferia. Per loro c’è una corrispondenza stretta tra eccellenza
musicale, dignità architettonica e il prezzo del terreno al metro quadrato.
La Scala com’era sarà come non è mai stata, ma la cosa, per loro,
è di scarso interesse: basterà fare finta. Come, d’altronde, fanno
finta di frequentare quel luogo per amore dell’arte e non per adempire
ai loro riti mondani. E come si è fatto finta, all’inizio, che il
progetto di Mario Botta fosse un mero “progetto esecutivo” per la realizzazione
di un qualcosa d’altro (un qualcosa, comunque, senza ellisse o altre “adeguate
conclusioni”). Il fatto è che, di finzione in finzione, costoro
ci stanno distruggendo la città, espellendone la popolazione e spegnendone
le attività, per ridurla a una serie di spazi vuoti in cui esibire se stessi
e i propri quattrini.
Se poi qualcosa si oppone a questo fine supremo, be’, sappiamo che non
ci stanno a pensare troppo: l’abbattono senza pietà. Esattamente
come hanno fatto, in ultima analisi, con la Scala.
29.02.’04