Siamo tutti restati di sale, per non
dire di peggio, quando l’onorevole Fini, martedì scorso, ha rilasciato
da Gerusalemme le ormai note dichiarazioni sul fascismo, le leggi razziali
e la Repubblica di Salò. Avremmo dovuto aspettarcelo, eh, perché
l’individuo ci aveva già spiazzato, qualche settimana fa, con l’idea
di far votare gli immigrati alle amministrative, ma allora eravamo riusciti
facilmente a inquadrare l’iniziativa nella sua eterna rissa con Bossi
e poi la proposta si era rivelata, all’atto pratico, ben povera cosa,
per cui avevamo lasciato perdere. Ma adesso, delle inopinate resipiscenze
del segretario dell’ex MSI dobbiamo, in un modo o nell’altro, prendere
atto. Siamo liberi tutti, naturalmente, di nutrire i più igienici
dubbi sulla sua sincerità personale (e io, vi dirò, qualcuno ne nutro),
o di chiederci quali siano le sue vere motivazioni, o quanta parte del
suo partito, dei suoi collaboratori e del suo elettorato sia disposto a
seguirlo, ma quella dichiarazione di principio sul fascismo “male assoluto”
resta e visto che in politica le dichiarazioni di principio contano anche
quando sono false, o insincere, non ci si può proprio passare sopra.
Naturalmente
sarebbe ingiusto, e un po’ cinico, per chi ha agitato la pregiudiziale
antifascista per tanti anni, fare notare che è facile dissociarsi da politiche
e ideologie del passato, quando si sa che dall’operazione scaturiranno
dei vantaggi sostanziosi nel presente, come la cooptazione a pieno titolo
tra i leader di quella nuova destra internazionale di cui Sharon, lo si
voglia o no, è oggi uno dei punti di riferimento. Le conversioni
ideologiche, in un paese in cui a capo del partito che ha preso il posto
della Democrazia Cristiana è insediato un ex radicale, non sono esattamente
una novità. Ma ci sarà ben un motivo per cui Fini ha deciso, volente
o nolente, di fare quella clamorosa autocritica, mentre il suo boss continuava
a sbraitare su un Mussolini tutto sommato benevolo e su un fascismo che
non ha mai mandato a morte nessuno. E non si può neanche rispondere
che Berlusconi è quello che è e non ci si può fare niente, perché a non
compromettersi sul passato regime, in un senso o nell’altro, sono sempre
stati ben attenti tutti gli esponenti di peso del suo partito, né si può
dire che i vari Pera, Casini e compagnia bella si siano mai sprecati sull’argomento.
Io,
personalmente, ho il sospetto che sia in gran parte una questione di percorsi
politici. Fini, in fondo, è tra i leader del centro destra quello
che più affonda le radici nella prima repubblica, dalla quale ha traghettato
nella seconda il suo partito completo di nipote del duce, reduci della
Folgore e guardia d’onore a Predappio. Ne ha cambiato il nome, certo,
ma è difficile considerare un ex segretario del Fronte della Gioventù ed
ex delfino di Almirante come l’esponente perfetto dei tempi nuovi. E
nella prima repubblica, se non altro per motivi storici, il problema del
fascismo si poneva. Non so se Fini abbia mai creduto personalmente
in quella ideologia – sono, in fondo, fatti suoi – ma è certo che,
prima di farsi entusiasticamente sdoganare da Berlusconi, nel fascismo
come insieme di “valori” (con tutte le virgolette del caso, naturalmente)
ha scommesso, o investito, qualcosa. Diciamo che ha assunto, nella
forma un po’ ambigua in cui si fanno queste cose in Italia, un certo numero
di impegni ideologici. Quelli appunto che, ormai, gli si sono rivelati
insostenibili.
Figuriamoci
se qualcosa di tutto ciò può riguardare Berlusconi. Lui di impegni
non ne prende mai. Lui si riserva da sempre il diritto di dire tutto
e il contrario di tutto, di essere fascista e antifascista, laico e baciapile,
innovatore o strenuo difensore della tradizione, a seconda delle immediate
necessità del dibattito. Il suo unico sforzo ideologico è quello
della piacenteria. Ha detto che Mussolini era buono non perché aderisse
sul serio all’ideologia del fascismo – il vero fascista, tra l’altro,
non vuole che di lui si dica che è buono: vuole, se mai, essere definito
duro, forte, maschio, virile, marziale e quant’altro – ma perché il buonismo
è una delle componenti della melassa comunicativa in cui lui sguazza comunemente.
Quello del fascismo buono è un mito caro alla piccola borghesia,
la classe che di Berlusconi, nonostante le sue personali fortune, rappresenta
il referente sociale, che è poi la classe per la quale le contrapposizioni
ideologiche contano poco e il ruolo del cattivo spetta esclusivamente a
chi la tocca nel portafoglio. Come i “comunisti”, per intenderci.
Felicemente
scollatosi dalle vecchie etichette, anche Fini è libero, oggi, di
confondersi nel grande circo Barnum del berlusconismo. Suppongo che
progetti di farvi carriera e di occuparvi, presto o tardi, il posto del
capocomico. Staremo a vedere e nel frattempo gli garantiamo, per
sua e nostra tranquillità, che continueremo a considerarlo un nemico. Ma
è significativo il fatto che per migliorare le proprie possibilità in quel
senso abbia dovuto, unico tra i parigrado, pronunciare la sua brava abiura.
In quella compagnia di transfughi e di riciclati, anche lui doveva
essere transfuga di qualcosa.
* * *
Oh, a proposito. Martedì scorso
Fini non è stato l’unico personaggio del pre berlusconismo a stupirci.
Spero che condividiate con me una sia pur riluttante ammirazione
per quanto ha dichiarato, quel giorno, il senatore a vita Emilio Colombo.
Non perché abbia ammesso di essere “un assuntore” – sia pure in
data recente – di cocaina: sono, anche questi, fatti suoi personali, in
cui nessuno dovrebbe avere il diritto o l’interesse di immischiarsi. Ma
nella fermezza con cui l’anziano notabile doroteo ha affermato che sì,
quella sostanza era destinata proprio a lui e i suoi collaboratori, quindi,
andavano esentati da ogni sospetto, ho avvertito, che volete che vi dica,
una certa grandezza. Certo, lui non rischiava niente: è improbabile,
nella sua condizione, che sia convocato dinnanzi al Prefetto e orbato,
con provvedimento amministrativo, del passaporto e della patente, né si
può pensare che, alla sua età, ambisca alla ripresa di una carriera politica
che gli ha già dato praticamente tutte le soddisfazioni che ne poteva auspicare.
Ma in questo mondo di magnati ingenui raggirati da stallieri malavitosi,
di viceministri distratti messi nei guai dalle iniziative di infidi segretari,
di alte personalità eternamente fraintese da intervistatori distratti,
in questo mondo in cui l’”Io non ne sapevo niente” e il “Ma che cosa
avete capito mai?” potrebbero fungere da impresa araldica sul sigillo
del capo del governo e dei suoi principali collaboratori, imbattersi in
un personaggio che, per una volta, non cede alla tentazione di gettare
una responsabilità qualsivoglia su qualcun altro è una vera consolazione.
Quella prima repubblica che ci eravamo affrettati così imprudentemente
ad archiviare continua a riservarci delle sorprese.
30.11.’03