Concedetemi, per una volta, di partire
da un’esperienza personale. Anzi, da una contraddizione personale.
Martedì scorso era il 15 dicembre, per cui, la sera, sono sceso,
come si dice, in piazza insieme a un certo numero di persone, in gran parte
compagni anarchici, per ricordare l’assassinio di Giuseppe Pinelli.
È un appuntamento che da anni cerco di non perdere: un impegno cui mi spiacerebbe
molto mancare e che ritengo dovrebbe riguardare tutti quanti, anarchici
o no, hanno a cuore il problema della giustizia nel nostro paese. Ma
al tempo stesso (è in questo consiste la contraddizione) mi sono accorto
che si tratta di un’esperienza che si sta facendo, anno dopo anno, sempre
più surreale, sempre più difficile da vivere e che mai più surreale e più
difficile da vivere mi è sembrata di questa volta.
Vedete,
non era tanto il fatto che fossimo pochissimi, non più di due o trecento
persone, e che quindi non manifestassimo altro che la nostra debolezza,
o meglio, l’avremmo dimostrata se, nella città gelida e deserta, ci fosse
stato in giro qualcuno cui manifestarla. Non ho mai creduto che per
avere ragione sia necessario essere in tanti (anche se qualche volta –
vi confesso – mi piacerebbe) e, in fondo, sono abbastanza convinto che
anche manifestare davanti a se stessi sia, in certe occasioni, un dovere
cui non bisogna sottrarsi. E non era tanto perché, quest’anno, il
nostro piccolo corteo era animato, per così dire, da un certo numero di
giovanotti volonterosi, che, applicando le procedure di quello che credo
si chiami il “teatro di strada”, si affannavano a illustrare, non senza
una certa eloquenza gestuale, il significato della manifestazione e della
ricorrenza. Certo, la loro presenza sarebbe stata molto più utile
se, oltre ai manifestanti, si fosse aggirato per le vie della Milano notturna
qualche altro essere bisognoso di ricevere spiegazioni: in mancanza di
interlocutori, di fatto, la loro presenza aveva un forte sapore di autoreferenzialità,
come se fosse volta a spiegare a quanti erano scesi in piazza, ai manifestanti,
i motivi per cui ci erano scesi, come a dire le cose che proprio loro intendevano
manifestare. Ma anche a questo, in fondo, siamo abituati e, tutto sommato,
che ci siano dei giovanotti che applicano le loro capacità e la loro incipiente
professionalità a tentativi di spiegazione di questo tipo, in fondo, non
può che fare piacere.
No.
Il vero problema, ve lo confesso, era rappresentato dall’età dei
miei compagni di manifestazione. Erano quasi tutti, salva eccezione,
giovanissimi: ragazzini, quasi. Pochi tra loro dovevano avere più
di vent’anni e quasi nessuno poteva aver vissuto quei terribili giorni
di ventinove anni fa, quando l’assassinio di Pinelli si sommò alle bombe
di piazza Fontana per farci capire che il periodo delle illusioni era finito
e che contro le nostre speranze di democrazia e rinnovamento si erano mosse
delle forze molto più spietate di quanto avessimo osato immaginarci.
Naturalmente,
anche il fatto che oggi, nel 1998, due o tre centinaia di giovani siano
disposti a sfidare il gelo e la solitudine del centro di Milano per ricordare
l’uccisione di Pinelli, come un paio di migliaia di studenti medi, tre
giorni prima, si erano presi la briga di ricordare piazza Fontana è, in
sé, positivo. Sarebbe ben triste se a manifestare il significato
di quegli eventi restassimo solo noi che ne siamo stati testimoni più o
meno diretti. Ma, d’altro canto, il fatto stesso che ancora oggi,
nel 1998, si senta il bisogno di manifestare pubblicamente quel significato
e che a farlo siano dei giovani, non è in sé sintomo di qualcosa di cui
compiacersi.
Mi
spiego. Mentre osservavo quanto fossero giovani i miei compagni di
manifestazione, mi è venuto in mente che io, alla loro età, nei primi anni
’60, non mi sarei mai sognato di partecipare a una manifestazione per
qualcosa successo trent’anni prima. E non perché alle manifestazioni,
allora, fossi riluttante, che, anzi, nel mio piccolo non me ne lasciavo
scappare una, o che degli eventi dei primi anni ’30 (che so: la crisi
di Wall Street, o la firma dei Patti Lateranensi, o l’incendio del Reichstag,)
negassi l’importanza e il significato. Il fatto è che quegli eventi,
per me e per i miei coetanei, avevano un significato che non occorreva
manifestare, un significato riconosciuto, pur nella varietà dei punti di
vista e delle sfumature teoriche, dalla cultura del nostro tempo. Insomma,
facevano parte della storia, come a volte si dice, con un’espressione
che in sé non è troppo brillante, perché della storia, naturalmente, fa
parte qualsiasi evento umano, recente o remoto, ma che per comodità possiamo
anche risolverci ad adottare. Affermare che un certo evento “fa
parte della storia”, dopo tutto, significa esattamente che tutti, più
o meno, concordano sul suo significato e sulla sua importanza. Le
sfumature di giudizio, in questi casi, tendono a essere di tipo professionale,
a riguardare prevalentemente gli specialisti di giudizi sul passato (gli
storici, appunto).
In
questo senso né la strage di piazza Fontana né l’assassinio di Pinelli,
con tutti i tristi episodi che vi sono variamente correlati, appartengono
alla storia. E non perché i quasi trent’anni trascorsi non siano
sufficienti per consentirlo. Il fatto è che la nostra società, nel
suo complesso, non ha ancora elaborato la cultura necessaria per ammetterlo.
Una parte importante del paese, una parte che comprende, oltretutto,
l’intero livello istituzionale, continua a rifiutarsi di riconoscere in
quei fatti quello che gli altri, a mio avviso a ragione, da subito vi hanno
visto. E così le autorità, di qualsiasi colore o appartenenza ideologica
siano, continuano a glissare sull’argomento (e a nascondere, probabilmente,
responsabilità personali di cui sono benissimo a conoscenza) e la magistratura,
unanime nelle sue molte anime, continua a ripetere, come impazzita, inchieste
e processi che tutti sanno destinati all’inconcludenza. La nostra
classe dirigente non è riuscita a esprimere nessun giudizio in merito,
in un senso o nell’altro, e noi, almeno quei pochi di noi che a esprimere
un giudizio ci tengono, siamo condannati ad infinitum a manifestarlo pubblicamente
e polemicamente. I giovani che, ne sia riconosciuto loro pubblico merito,
partecipano a questa funzione, e anzi la animano (perché noi anziani, a
questo punto, non siamo in grado di animare un gran che) non lo fanno in
nome di un passato che non è il loro, ma non possono farlo neanche in nome
di una storia che non è potuta diventar tale. Il che è degno di lode, ma
può ingenerare anche un po’ di frustrazione, giustificando quell’impressione
di irrealtà di cui vi dicevo all’inizio.
Il
che non significa, naturalmente, che abbiamo intenzione di smettere. Ma
che fatica.
20.12.’98